Dovrebbe giungere sempre per l'artista un momento in cui il linguaggio si semplifica, in cui la coscienza alleggerisce lo stile dalle molte sovrastrutture dell'Io: un affinarsi interiore cui fosse subordinato, d'ora in poi, ogni problema tecnico.
Durante il mio viaggio ho attraversato un arcipelago di opere che ancora riflette questa svolta. Vi si può leggere una ulteriore attenzione alla psicologia nell'organizzare la forma: le simmetrie - quelle più speculari -verranno abbandonate, per balenare solo nellillusorietà del percepire.
Allora il discorso distillò una dimensione straniata, di deformazione prospettica, e la fisiologia, appena riscoperta, fu assottigliata per discendere meglio alle origini del pensiero.
Già la trasformazione sonora, rendendo irriconoscibili gli strumenti, sottraeva per così dire la fonte all'ascoltatore. A partire da quegli anni il suono si spazializza fortemente, sono indotte altre sensazioni, le caratteristiche di una percezione globale. Il pianissimo, non più semplice attributo, diviene veicolo ed essenza del suono lontano. E le sue folate non provocano un incresparsi della musica pura, la disgregazione logica. Al contrario, vi si manifesta una realtà sonora che vive al di là, misteriosamente ai limiti della notte: la mente si fa spazio all'immagine, e questa è portatrice di senso.
Un Quintettino a Milano, la primavera del 1977. Fu inviato a Lina Marzotto, con l'epigrafe pitagorica: «Quando spirino i venti, l'eco adora».
(1984)